martedì 4 giugno 2013

La cisti della democrazia



Mentre Giorgio Napolitano illumina la parola "irrituale" di nuove affascinanti nuances, amputando l'esperienza delle larghe intese, con una specie di messaggio minatorio in stile The Ring "diciottomeeeeesiiii", il dibattito sulle "riforme istituzionali" rimescola del carte nel mazzo truccato della politica italiana.

Il primo elemento che falsa il gioco della politica è una legge elettorale che crea un'alchimia esplosiva con la mancanza di un meccanismo che assicuri la partecipazione democratica dei cittadini alla politica. Il risultato è paradossale. C'è addirittura qualcuno che può permettersi di ostacolare una legge sulla base democratica dei partiti che gli italiani aspettano da più di mezzo secolo, con la Costituzione che la impone, facendosi scudo del fatto che con una norma del genere sarebbe limitata la partecipazione del Movimento 5 Stelle alla politica. Cosa non vera, perché il Movimento ha già uno statuto ed ha già personalità giuridica. Ciò che non va bene, evidentemente, è il contenuto dello statuto. Ma è proprio per questo che i costituenti hanno previsto un sistema in cui dovrebbe essere la legge a prevedere modalità democratiche per fare politica. Sui contenuti, naturalmente, si può e si deve discutere. Ma non mi sembra possibile rimandarne ancora la trattazione, perché "tanto ci basta il web". La rete non garantisce niente se non il sistematico lasciapassare di ogni prurito del cartaio e dei suoi amici.  Chiunque conosca anche solo un po' internet non ne sopravvaluta le potenzialità aggregative o partecipative. Il problema è che chi di solito si entusiasma con le vaccate pentastellate è quel genere di persona che cerca la parola "google" su Google.

Come dire che è possibile prendere parte alla vita pubblica finché è consentito il personalismo di uomini-partito o uomini-movimento (non cambia niente) che decidono di cementificarsi a capo di una struttura, addirittura senza candidarsi ed essere eletti. O si diventa capipopolo e ducetti o ci si riduce ad essere uno dei loro leccapiedi. Non esistono alternative, secondo l'avveniristica concezione della democrazia  Cinque Stelle. Se vuoi partecipare devi essere disponibile a farti "bannare" alla prima cosa sgradita che dici e a far carriera rispondendo soload un padroncino in delirio. C'è poco da restare Allegri. Ma tant'è.

Per mesi ci siamo disidratati di pippe con analisi sociologiche sul fenomeno Grillo e sul Movimento 5 Stelle. Abbiamo provato a spiegarne il successo, a comprenderne le logiche, ad apprezzare gli effetti del suo sviluppo. Per mesi ci siamo nutriti di Beppe, dei suoi monologhi e delle sue invettive, persino dei suoi pendenti di saliva. In alcune fasi della Repubblica ci è sembrato che questo barbuto e sudaticcio omaccione sarebbe riuscito a calarsi nella sala dei bottoni con la precisione di Tom Cruise nel primo Mission Impossible.

Allo stesso tempo, siamo stati obbligati a riflettere sulla disinvoltura con cui Napolitano scuciva e ricuciva la Costituzione per riparare ai "vuoti" creatisi a causa di una serie di congiunture astrali della democrazia (leggasi: legge elettorale demenziale ma che conviene a tutti + esito del voto incerto ma che conviene a tutti + programmi elettorali non chiari per non dire addirittura oscuri ma proprio per questo convengono a tutti). Abbiamo, per così dire, assaporato entusiasmanti momenti di costituzionalismo crativo: dieci saggi, governi del presidente, programmi del presidente, scudisciate per Bersani, governo a tempo determinato, calci vibranti nelle palle ai 5 Stelle. Cose così. A questo punto, come non lasciarsi lusingare dalla prospettiva di una vita istituzionale piena di brio? Il presidenzialismo diventa un passo imprescindibile per la Repubblica.

Tra le pagine di questa storia, come piccole orecchie piegate alle punte dei fogli, s'inseriscono le quirinarie, il "meraviglioso esercizio di democrazia" delle consultazioni avvenute sul web, sullo stesso sito che sostene economicamente il partito organizzatore della meraviglia di cui innanzi. 

La storia finisce con Milena Gabanelli che vince la competizione ma presto declina l'offerta e Stefano Rodotà candidato al Colle, dall'alto dei suoi quattromilaequalcosa voti su meno di cinquantamila cliccanti in totale. Tutti i grillini, solitamente appassionati di scie chimiche, controllo climatico, aspartame e genuine balle a km zero, diventano sostenitori accesi dell'elezione diretta del Capo dello Stato. Sulla scorta di quest'esigenza, propugnano la candidatura di Rodotà con la ragionevolezza e la ponderazione di un talebano alle prese con un detonatore. 

Facciamo un balzo in avanti. Faida nel PD, siluramento di tutti i candidati (compreso Rodotà), pippone infinito su tutti i social network, nelle principali piazze e zeccolandie d'Italia, Occupy Staceppa. Rodotà entra da vivo nell'olimpo del Popolo Marrone, accanto a Berlinguer, Don Gallo e Nonno Pertini (con tanto di grattata di palle).

Avanti veloce. Milena Gabanelli fa un'inchiesta arroventata sul Movimento di Grillo, una di quelle che le hanno fatto guadagnare l'ampia stima di cui gode (e la sua prima posizione nelle quirinarie), il comico genovese sempre grondante di liquami pensa bene di querelarla e lei finisce all'indice dei giornalisti "non liberi". Naturalmente.

Avanti ancora. Tragedia amministrative. Rodotà - l'eroe, il mito, il capopopolo, la leggenda, il salvatore della patria - prova ad aprire un dibattito nei metodi degli scoperchiatori di scatolette di tonno. Grillo -indovinate un po'- lo sfancula, poi ritratta, ma sostanzialmente lo sfancula con una classe che non ha nulla da invidiare al tenero cadeaux di Storace alla Montalcini. Se c'è qualche pezzo di web che non esulta alle parole del barbuto omaccione sempre unto, allora occorre un'opera di rimozione di commenti. Una bonifica del web. Perché c'è rete e rete: la libertà sul blog è bella se non è litigarella, insomma, se si dà sempre e solo ragione ad ogni palla di sebo che ringhia.

Ora chiunque si aspetterebbe il massimo dell'entusiasmo possibile da parte dei grillini, innanzi all'ipotesi presidenzialismo. A rigor di logica, dovrebbero stappare le bottiglie buone, quelle messe in cantina in attesa della sentenza di condanna irrevocabile nei confronti di Berlusconi. E invece no. Il cittadino Peter Griffin, alla Camera, dichiara -in buona sostanza- che il presidenzialismo non si mangia, per cui è inutile parlarne. Fuori dal Parlamento, il blogger più famoso d'Italia strizza i peli delle sue ascelle per fare una doccia fredda ai giornalisti: il presidenzialismo non serve a niente. Anzi, serve solo a Berlusconi. Che è peggio.

Anni di predicozzi sulla ggente, sulla democrazia dal basso, sulle quirinarie e su RO DO Tà RO DO Tà RO DO Tà eletto direttamente dal popolo sovrano per poi ridurre la discussione sul presidenzialismo (che pur sarebbe tutt'altro che semplice) al solito dubbio cruciale: e se tutto questo favorisse Berlusconi? Dramma. Vuoi che i perdenti nati debbano essere costretti addirittura a vincere le elezioni per governare? Impossibile! Dovrebbero prima imparare un concetto di democrazia diversa dal "comandiamo noi".

Vediamo se è chiaro. Meno di cinquantamila persone che cliccano su un sito commerciale sono il massimo della democrazia, anche se una volta ogni due il gestore del sito, del movimento e di tutto il resto annulla l'esito parlando genericamente di attacco hacker. Non solo. Il voto di meno di cinquemila persone su un sito di partito è niente meno che la volontà del popolo italiano. Però un uomo votato nel segreto delle urne da dieci milioni di persone è ineleggibile, impresentabile o addirittura un pericolo la cui esistenza rende inattuabile una forma di governo diversa e orientata proprio ad instaurare quel mandato diretto nei confronti del Presidente della Repubblica che gli stessi grillini chiedevano a gran voce.

Tutti i discorsi per comprendere la logica di questi giacobini da tastiera vanno fatalmente a farsi benedire, perché non c'è ragione alcuna nel loro agire politico. Tutte le balle sui rimborsi, sugli scontrini, sulla rendicontazione delle caramelle, i calci in culo, le scatolette di tonno in Parlamento, i  risvolti sui calzini, sono un bug nel sistema politico. Una formazione di pus, peli e liquidi endocrini che matura sottopelle finché non viene espulsa in un fetido rituale di liberazione. Guai a scambiare questa roba per una forma avanzata di partecipazione democratica.

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