Articolo pubblicato oggi su Libertiamo.
Le vicende del liberalismo
italiano accadute nell’ultimo anno ricordano “La ricostruzione del Mocambo” di Paolo Conte. La sua trama riporta
alla mente la storia di tanti piccoli bar in difficoltà chiamati Mocambo che, a
pensarci bene, è anche la storia di questo Paese con un piede e mezzo nel
baratro. Nel brano si parla di un tentativo di riscatto dopo tante
vicissitudini, gomito a gomito con un curatore, fuori dalla metafora, Mario
Monti. Sullo sfondo, una storia d’amore e di incomunicabilità, tra persone
tanto familiari quanto distanti. I liberali italiani, in effetti, sembrano
spesso parlare tra loro lingue differenti e soprattutto diverse da quelle di
tutti gli altri, nonostante la loro vicinanza ideale e la prossimità alle reali
esigenze della popolazione.
In politica c’è chi, a forza di
“salire”, si è squagliato le ali, in deliri di snobbismo e presunzione. Le
lauree e il master non sono solo “balle private” come si è detto con tono
liquidatorio, sono anche indice di una vanità che si è palesata in tutta la sua
virulenza.
Diciamo le cose come stanno: il
politico non può limitarsi ad essere la pedissequa imitazione dell’uomo medio
con tutti i suoi vizi ed i suoi vezzi più purulenti, ma non può nemmeno essere
sprezzante del mondo che circonda le persone della porta accanto, come se
fossero esseri squallidi e miserabili. Invero, non tutto ciò che riguarda il
“popolo” è sempre bollabile come “populismo”. Se si è convinti del contrario,
si può anche fare a meno della politica e concentrarsi solo sulla ricerca,
sull’insegnamento e, al massimo, iscriversi ad un Golf Club.
La sdegnosa divergenza nel cammino
di ravvicinamento tra Fermare il Declino ed Italia Futura e la loro successiva
contrapposizione in una lotta d’ortodossia economica (condotta soprattutto da
parte dei primi) non solo ha allontanato persone in realtà piuttosto vicine
(corrispondenti a precisi segmenti adiacenti d’elettorato), ma ha anche
impoverito di idee, risorse e spazi entrambi i movimenti, confinando ciascuno
in una cellula stagna, circondata da un purismo impenetrabile rivelatosi
insipido e non convincente.
Il resto è già storia: la nascita
di Fare e di Scelta Civica, ovviamente alternativi alla destra ed alla sinistra
e persino tra loro. Nel contempo, i radicali si trasformano in un una lista di
scopo, Amnistia Giustizia e Libertà. Questi ultimi, zoccolo duro del
liberalismo italiano ormai extraparlamentare, sono contro la partitocrazia ed
ogni forma di finanziamento pubblico alla politica da prima che Beppe Grillo,
ancora comico-luddista, iniziasse a fare a pezzi i computer nei suoi
spettacoli. Non è un caso che proprio i radicali siano stati gli scopritori
dell’affare Fiorito e lo stimolo delle più recenti inchieste sulle spese negli
enti locali. Purtroppo, gli elettori hanno ritenuto più credibile un movimento
più giovane come quello di Grillo, dal linguaggio violento e dalle idee meno
ordinate e coerenti rispetto a quelle dei radicali che, dal canto loro, invece
di cambiar nome avrebbero ben potuto -ad esempio- cambiare leadership (la più
longeva nel panorama italiano), rivedere la loro comunicazione ed evitare
essere epurati prima di capire che con il PD e con la sinistra giustizialista e
moralista non si va più da nessuna parte.
In generale, questa smania di “frattalizzarsi”
non ha portato buon consiglio a nessuno, ha abbandonato tante valide menti all’autoreferenzialità,
con esiti quasi autodistruttivi. Sul punto si vedano le vicende che hanno dato
origine al declino di Fare. Quest’ultimo partito ha comunque ottenuto una
percentuale nella media dei due alleati dell’Agenda Monti. Parliamo dei
decimali dello zero o dell’uno. A ben vedere, non si tratta di stimare quanti
voti avrebbero potuto raggranellare le singole le forze liberali italiane se si
fossero presentate unite davanti all’elettorato, ma di comprendere quale diverso approccio
avrebbero avuto nel linguaggio, nella comunicazione, nella percezione delle
istanze del popolo e nella consequenziale risposta alle stesse. Il tutto, per conferire
tono e colore a qualcosa che man mano ha perso sapidità e simpatia, fino a
diventare trasparente.
Non si può più preferire le élites
al popolo. Occorre, altresì, superare il
miraggio del voto “confessionale”. Impossibile non menzionare il problema della
segregazione dei cosiddetti temi etici o rientranti in una sfera erroneamente
considerata areddituale della vita del Paese e, pertanto, non prioritari. Tale
demarcazione ripropone schemi mentali superati dalle attuali ricostruzioni
teoriche dei diritti e delle libertà.
Mentre si facevano precisazioni e
si spaccava il capello in quattro, per rimarcare la distanza ora dal centrodestra,
tacciato dei peggiori mali possibili e obliterato da ogni prospettiva politica,
ora dagli altri bersagli presenti in campagna elettorale, si è finito con
l’annientare il dibattito tra le forze che vogliono più libertà, più prosperità
e meno Stato nella vita delle persone. Oltretutto, con un atteggiamento
cattedratico che è stato la tomba dell’esperito tentativo di superamento del
bipolarismo. Non si può essere alternativi al centrodestra e al centrosinistra
tirando le orecchie un po’ a tutti con un fare da professorini, ma solo
provando a tendere la mano e a costruire insieme una alternativa concreta, a
destra o a sinistra, prima delle elezioni. Senza vaghe e vane
speranze di essere l’ago della bilancia e senza culti della personalità di
qualcuno.
Ogni forza politica riformatrice
dovrebbe avere una priorità assoluta: creare un piattaforma comune in cui
operare una sintesi della società, invece della solita raccolta “a campione” di
personaggi-spot del panorama mediatico (es. il cattolico, il sindacalista, la
sportiva…).
Le cose, come sappiamo, sono
andate diversamente. L’Italia liberale è ancora vittima di un deficit di
rappresentanza non imputabile al popolo ignorante, teledipendente o internet
dipendente. Il responsabile è innanzitutto il liberale “frattale” che è in noi.
Ci frequentiamo, ci salutiamo e poi perdiamo le nostre tracce proprio sul più
bello, magari in altre infruttuose frequentazioni apparentemente più comode o
sicure.
Abbiamo imparato ad accarezzare
il brivido delle dimissioni lampo e
dell’indignazione automatica, ci siamo abituati a ridicolizzare l’interlocutore
per i suoi titoli inferiori ma senza degnarci di chiarire le nostre motivazioni
e certe conclusioni presentate come assiomi. Qualcuno di noi, poi, possiede
persino le giuste credenziali accademiche per potersi permettere tutto questo,
ma non ce n’è stato uno in grado di utilizzarle per dedicarsi alla
ricostruzione di uno spazio in cui parlare tra noi e -magari- far capire
qualcosa agli altri.
E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.
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